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Riflessioni interessanti sul post Covid-19 nel settore del lusso

16 Mag

da Fashion Magazine:

Il team di analisti del lusso di Bernstein capitanati da Luca Solca immagina un post Covid-19 dei gruppi del settore che non potrà fare a meno di cambiamenti strutturali. Ma non si tratta della moda “slow” immaginata da Giorgio Armani e sottoscritta in un appello da una serie di designer esteri tra cui Dries Van Noten e Tory Burch.

Gli esperti di Bernstein vedono i luxury group davanti a un bivio: vedere scomparire i loro fornitori o acquisire i migliori? Gruppi come Kering e Prada si potrebbero quindi trovare a destinare una parte maggiore del loro capitale per garantirsi la produzione diretta. Attività necessaria anche per tutte quelle società che rivendicano credenziali Esg-Environmental, social and governance (in ambito finanziario, concetti base per giudicare la sostenibilità degli investimenti), se vogliono essere credibili.

Sul fronte distributivo arrivano tempi duri per il wholesale. Gli analisti del broker americano hanno infatti notato che tutte le volte in cui le vendite promozionali raggiungono un picco – situazione alquanto prevedibile dopo il lockdown, per ridurre gli stock – le luxury company riducono la loro esposizione al wholesale. Di pari passo è prevista un’accelerazione dello sviluppo digitale e delle vendite “customer service driven”.

A proposito dei consumi è probabile una ridefinizione del concetto di lusso. «Ci sarà ancora una legittima aspirazione all’elevazione sociale, a essere migliori e ad avere di più – dicono – ma sulla scia della brusca recessione che verrà, prevediamo consumatori più conservatori e che temporaneamente cambiano il mix di spesa».

Un’altra mutazione attesa è strettamente connessa allo shopping dei cinesi, che ormai fanno il 35% del mercato del lusso ma acquistano il 70% al di fuori della Cina Mainland (la metà di questa quota in Europa). «Uno dei motivi più importanti per cui i consumatori cinesi hanno speso così tanto al di fuori della Cina Continentale – ricordano gli analisti – è che i prezzi all’estero sono più bassi. Prevediamo quindi un’accelerazione della convergenza dei prezzi tra Europa e Cina». Se i flussi di turisti cinesi non riprenderanno presto (probabile, finché non si materializzerà una terapia o un vaccino per il Covid-19), i brand dovranno cercare di recuperare la spesa dei cinesi a casa loro. «Questo però sarà un problema per i monomarca in Europa – osservano – che in gran parte dipendono fortemente dal traffico e dalla spesa cinesi».

Intanto, mentre Europa e Usa si stanno muovendo verso una riapertura graduale dell’economia, la Cina – dove tutto è cominciato – ha già riaperto e il suo percorso verso la normalizzazione va monitorato. I dati appena diffusi dal ministero del Commercio di Pechino sulle vendite al dettaglio di aprile mostrano un miglioramento rispetto al mese prima, ma sotto le attese: -7,5% il calo su base annuale, dal -15,8% di marzo e dal -20,5% di gennaio-febbraio. Gli economisti prevedevano invece un -7%. Sempre in aprile la disoccupazione cinese è aumentata del 6%, dal +5,9% di marzo ma la produzione industriale si sta riprendendo: +3,9%, dal -1,1% di marzo (+1,5% la previsione).

In un report di oggi gli analisti di Morgan Stanley sostengono che la ripresa delle vendite di abbigliamento nella Repubblica Popolare è ancora imprevedibile. Per quanto riguarda un mercato come gli Stati Uniti si saprà qualcosa di più quando arriveranno i numeri dei retailer di aprile, anche se i pochi che hanno riaperto stanno scontando un calo del traffico oltre il 95%, rispetto a un anno prima. Molti fashion retailer non si aspettano l’apertura totale prima di giugno e stanno già mettendo in conto procedure come le limitazioni di affluenza in store e l’uso di pannelli divisori in plexiglass per separare gli addetti dai clienti. «La ripresa – riferiscono gli analisti – richiederà molti mesi e forse si avrà una piena normalizzazione del traffico in negozio solo se ci sarà un vaccino».

Tornando in Cina, in una precedente analisi di Morgan Stanley a fine aprile le aperture dei negozi al dettaglio risultavano all’incirca all’80-85% del totale, in media, e il traffico era circa il 70% rispetto ai livelli pre Covid-19, con un traffico nei negozi su strada maggiore di quello nei mall. La spesa al dettaglio online (circa il 30% della spesa totale al dettaglio) ha invece avuto un impatto minore dalle misure governative di contenimento del virus. Le vendite online di beni di consumo sono cresciute di oltre il 10% a marzo, rispetto al 3% di gennaio-febbraio.

In futuro la ripresa generalizzata dei consumi potrebbe avere un andamento differenziato a seconda dei livelli di prezzo. «Ipotizzando un aumento della disoccupazione – dicono gli analisti della banca d’affari di New York – i consumi di fascia bassa per accelerare necessiteranno di sconti da parte delle aziende e provvedimenti di sostegno da parte delle amministrazioni. Invece il lusso dovrebbe beneficiare del fatto che il potere di spesa delle famiglie a reddito più elevato è rimasto intatto». La crescita sperimentata ai primi di aprile da moda e cosmetici di marchi del lusso è in parte spiegata con il fatto che lo shopping è stato represso dalla pandemia e in parte perché si rinuncia ai viaggi all’estero.

Negli Usa è probabile un percorso simile a quello cinese sul fronte consumi, con differenze fra canali e prodotti. Per il periodo maggio-luglio Morgan Stanley prevede un calo complessivo del 30-45%, rispetto a un anno prima, e un miglioramento sostanziale – corrispondente a una flessione del 10-15% – fra agosto e ottobre, quando le persone inizieranno a tornare alla normalità. Nel trimestre successivo, la contrazione delle vendite dovrebbe ridursi al 5-10%. Abbigliamento e accessori partono svantaggiati: nel solo mese di marzo i consumi si sono dimezzati.

«A livello di cambiamenti strutturali – osservano gli esperti – c’è stato uno spostamento verso gli acquisti online e prevediamo che la recessione accelererà il passaggio allo shopping digitale». Per categorie come la moda, negli Stati Uniti c’era già un alto tasso di penetrazione delle vendite online, stimato del 40%. «Siamo scettici – concludono Morgan Stanley – sul fatto che il comportamento dei consumatori, in termini di mix di spesa online/offline tornerà a essere quello che era nel 2019».

 
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Pubblicato da su 16 Maggio 2020 in Uncategorized

 

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